Bêtes des tranchées. Des vécus oubliés (Opac Sbn) è stato pubblicato nel 2013 e rappresenta un deciso cambio di passo nella letteratura storiografica sulla Prima guerra mondiale e la presenza animale al fronte.

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Il suo autore, Eric Baratay, è antesignano dell’etologia storica e da tempo i suoi studi si sono posti l’obiettivo di portare il punto di vista animale al centro dell’indagine storica, come dimostrano due volumi significativi, Le point de vue animal: une autre version de l’histoire del 2012 e il più recente Biographies animales: des vies retrouvées del 2017. Raccontare la Grande Guerra dal punto di vista animale è per l’autore necessario e dovuto, considerando che gli animali impiegati sui vari fronti furono all’incirca 11 milioni. Si tratta di una cifra approssimativa. Ad oggi, infatti, gli studi non sono in grado di stabilire se tale cifra riguardi il totale di tutti gli animali arruolati durante l’intero conflitto – per animali arruolati si intendono i cavalli, i muli, gli asini, i cani e i piccioni viaggiatori – oppure quelli effettivi alla fine della guerra. Nell’uno e nell’altro caso si tratta di un numero enorme, che non comprende gli equini morti durante le traversate oceaniche per raggiungere l’Europa, i cani e i gatti abbandonati dai civili in fuga e adottati dai soldati, gli animali selvatici catturati lungo il fronte, nonché quelli fortemente attratti dalle trincee come ratti, mosche, pidocchi, pulci.

È questa presenza imponente che induce lo studioso a rivedere la narrazione antropocentrica dell’esperienza bellica presente nella maggior parte delle pubblicazioni, in cui gli animali di guerra sono rappresentati in quanto beni d’uso a disposizione dei combattenti.

Nella realtà degli eventi la contiguità tra combattente e animale andò ben oltre. Proprio gli animali con la loro presenza hanno permesso ai soldati di sopravvivere al quotidiano di trincea e non sono mancate da parte dei soldati ricordi riconoscenti di questi compagni d’armi.

Sono queste riflessioni a portare Baratay sul versante degli animali, per rintracciarne il vissuto, le emozioni, la cooperazione o la resistenza, le sofferenze e i destini, e da qui muovere per provare a comprendere le attitudini e i sentimenti dei soldati.

Quello che lo storico sperimenta con Bêtes des tranchées. Des vécus oubliés è una straordinaria apertura sul piano disciplinare: La storia non più (non esclusivamente) scienza dell’uomo nel tempo, bensì scienza degli esseri viventi nel tempo”, ponendo come condizione necessaria il superamento della distinzione tra l’uomo e l’animale che non esita a definire vana, puerile, falsa.

Vana, perché l’animale non esiste, non è che un concetto, una categoria mascherante la realtà della molteplicità delle specie. Puerile, perché la questione della differenza tra una specie reale, l’uomo, e un fantasma non è mai servita a conoscere i diversi animali bensì a permettere agli umani di avvalersene, allorché sarebbe stato necessario pensare le molteplicità delle specie, tra cui l’umana, non già in termini di superiorità e gerarchia, bensì di differenza, di specificità e di ricchezza di ciascuna. Falsa, perché si conoscono molto poco gli animali (non si ha nemmeno piacere a saperne di più, preferendo i comodi stereotipi sull’animale) e si fissano nella maggior parte dei casi le differenze su delle credenze, confondendo l’analisi con un discorso di dominazione.

Il ricorso ad altre scienze diventa necessario. Lo storico si affida all’ecologia, per ricostruirne gli habitat e comprendere l’influenza che essi ebbero sui comportamenti animali; all’etologia, per comprenderne i comportamenti; alle neuroscienze, per comprenderne le capacità cognitive; alla psicologia e alla medicina veterinaria, per comprenderne il funzionamento psico-fisico. Grazie a questi ausili può, infine, approcciarsi alle fonti – memorie e testimonianze di ufficiali, lettere di soldati semplici, referti veterinari, fotografie – prodotte e conservate dagli uomini, rovesciandone il punto di vista.