La violenza alimenta altra violenza, rigenerandola nel tempo. È questo il tema che percorre il denso volume di Heather Jones, Violence against Prisoners of War in the First World War. Britain, France and Germany, 1914-1920 (Opac Sbn).

Jones muove dall’assunto secondo cui la violenza di guerra non è da considerarsi una costante, bensì “il prodotto della storia”, dunque socialmente e culturalmente condizionato (W. Benjamin, Per la critica della violenza, 1921), per affermare che l’escalation dei comportamenti brutali registratasi durante la Prima guerra mondiale non fu né inevitabile né irreversibile e, anzi, fu spesso determinata dalle reazioni e non-reazioni dei civili. Anche la violenza contro i prigionieri di guerra è da considerarsi un processo negoziato e i fenomeni di radicalizzazione all’interno di questo processo possono essere rivisti se l’opinione pubblica li rigetta (W. Lippmann, L’opinione pubblica, 1922).

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Lo studio, analizzando la progressiva brutalizzazione delle condizioni di prigionia in Germania, Francia e Gran Bretagna, contribuisce allo sviluppo della storia comparativa della Grande Guerra attraverso una inedita comparazione a tre, resa possibile dalla omogeneità delle fonti utilizzate. L’autrice mette a confronto le fonti ufficiali prodotte dalle autorità militari e diplomatiche dei tre paesi con le testimonianze raccolte nelle interviste ai prigionieri realizzate da giornalisti e operatori umanitari durante la prigionia e immediatamente dopo, con le memorie dei protagonisti conservate nei memoirs da loro stessi prodotti e, non da ultimo, con le relazioni sulle condizioni di vita dei prigionieri di guerra redatte dagli ispettori neutrali, facenti capo al sistema di ispezione garantito dalla Croce Rossa Internazionale e accettato da tutti e tre i paesi considerati.

La complessa mole documentaria su cui poggia la ricerca ha permesso di analizzare le esperienze dei tre paesi non come unità singole di comparazione, bensì come sfere che includono diversi livelli di interazione: la prospettiva transnazionale, in cui si collocano le relazioni bilaterali e multilaterali fra i tre stati; le risposte nazionali alle politiche nemiche; e la costruzione di una propaganda popolare incentrata sulle brutalità commesse dai nemici contro i propri connazionali. A questi piani si accosta anche quello propriamente giuridico e relativo, nello specifico, al rispetto delle norme internazionali in materia di prigionieri di guerra.

Violence against Prisoners of War in the First World War, infatti, evidenzia l’esistenza di un doppio sistema di prigionia, da considerarsi una violazione alle leggi vigenti nonché una vera e propria innovazione strutturale favorita dal conflitto. Da un lato, i prigionieri, principalmente gli ufficiali, inviati ai campi di prigionia posti lontano dal fronte nelle zone sotto il controllo delle autorità nemiche che li avevano catturati; dall’altro, i prigionieri-lavoratori, soggetti ridotti in schiavitù e costretti ai lavori forzati nei campi di lavoro presenti in prossimità della linea del fronte. I report degli ispettori neutrali rivelano che i prigionieri trattenuti al fronte subirono un trattamento estremamente più duro rispetto a quello riservato ai commilitoni inviati ai campi di prigionia. Il doppio sistema di prigionia, rileva Jones, fu comune a tutti e tre i paesi analizzati, in aperta contraddizione con la legge internazionale: la Convenzione dell’Aia del 1907, pur stabilendo che un prigioniero di guerra potesse lavorare per lo Stato che lo aveva catturato, sanciva altresì che non potesse essere impiegato nel mantenimento dell’economia di guerra. La creazione di questo sistema dettato dalle esigenze belliche costituisce, secondo Jones, un precedente all’uso indiscriminato della detenzione e dei lavori forzati nelle guerre del XX secolo, trovando la sua massima espressione nell’universo concentrazionario nazista e, successivamente, nei gulag e nei campi di lavoro franchisti.

La progressiva brutalizzazione del conflitto e la diffusione di informazioni sempre più inquietanti  sulle atrocità commesse dal nemico contribuirono ad alterare la percezione collettiva circa il livello tollerabile di violenza ai danni dei prigionieri nemici. Un ruolo importante nella costruzione di questo processo e dei suoi effetti nel lungo periodo lo ebbe l’esercizio della violenza non-mortale. Innanzitutto, la violenza esercitata dai civili. Nel 1914, molti prigionieri furono oggetto di abusi fisici e verbali da parte dei civili che si riversarono nelle strade per guardare in faccia il nemico. In Francia ed in Germania si registrarono gli episodi più eclatanti: per i francesi i prigionieri tedeschi erano da considerarsi legittimi obiettivi della rabbia popolare; mentre i prigionieri francesi ricordano di essere stati oggetto della violenta ostilità delle donne tedesche. Le reazioni dei civili nei confronti dei prigionieri nemici indussero le autorità militari a favorire in maniera sistematica gli abusi contro i prigionieri, benché le élites continuassero ad interrogarsi sulla legittimità della violenza ai danni dei prigionieri al punto da rinegoziarne costantemente le modalità. Furono raggiunti accordi bilaterali per sospendere le esecuzioni capitali emanate dalle corti marziali e per garantire ai prigionieri la ricezione dei pacchi con i viveri spediti loro dalle famiglie e dalle organizzazioni di carità. Ciononostante le autorità tedesche decisero di somministrare ai prigionieri scarse quantità di cibo e sottoporli a violente punizioni corporali, sino a negare loro le adeguate cure contro il tifo nel 1915. Parallelamente le autorità francesi detennero in pessime condizioni sanitarie i prigionieri tedeschi in Nord Africa, dove contrassero la malaria.

L’azione violenta veicolata dal trattamento riservato ai prigionieri si protrasse oltre il conflitto. Gli alleati continuarono a pubblicizzare le violenze subite dai propri prigionieri nei campi di prigionia tedeschi allo scopo di perseguire la Germania per i crimini commessi. In questa strategia si inserisce la decisione delle potenze vincitrici di ritardare il rimpatrio dei prigionieri tedeschi e di utilizzarli nelle operazioni di sminamento fino alla conclusione ufficiale delle procedure legali per l’accordo di pace. Questi fatti incrementarono l’ostilità della popolazione tedesca che, in mancanza di una ammissione di responsabilità circa le atrocità commesse da parte delle proprie autorità militari, non comprese e non accettò le ragioni per il ritardo nel rimpatrio dei propri prigionieri.

Il libro rappresenta un indubbio contributo all’emersione di aspetti poco conosciuti della Grande Guerra ed in questo senso la scelta di Jones di analizzare le forme di violenza esercitate sui prigionieri si dimostra efficace, sebbene presenti due grossi limiti: il primo, aver abbracciato acriticamente la tesi per cui la maggiore brutalità delle autorità militari tedesche abbia beneficiato di un’opinione pubblica incline a legittimarne le azioni; il secondo, non aver tenuto conto in nessun punto di questo corposo studio delle conseguenze emotive che le violenze subite ebbero sui sopravvissuti.