Animals in War è stato pubblicato nel 1983 (KVK). La sua autrice, Jilly Cooper, già giornalista e scrittrice molto affermata in Gran Bretagna, fu incaricata dall’Imperial War Museum (IWM) di realizzare un libro che accompagnasse la mostra dedicata agli animali in guerra in programma proprio per quell’anno. Animals in War non è, tuttavia, il catalogo della mostra.

Cooper ha restituito un volume che a giusto titolo è da considerarsi il punto di riferimento iniziale per quanti si occupano della presenza animale in guerra. Una presenza che, vale la pena ricordarlo, è databile all’origine della guerra stessa e che risponde alla pratica di sfruttamento patriarcale esercitato dall’uomo sulla natura per il conseguimento dei propri fini. Questo stride fragorosamente con l’abnegazione e la fedeltà dimostrata dagli animali ai propri conduttori, come Animals in War non manca di evidenziare.
For where animals are concerned there is always love (p.11).
Un amore incomprensibile a chi non ha famigliarità con il mondo animale e che cambia la vita se lo si conosce. È l’amore del cavallo tedesco, che nel bel mezzo di una carica di cavalleria tornò indietro per confortare il proprio cavaliere morente, finché una granata non li finì entrambi; è quello del bastardino, che corse nelle trincee da un soldato all’altro alla ricerca disperata del proprio conduttore fino a perdere le forze. Ma è anche la tenerezza dimostrata dai mulattieri indiani, pagati durante la Prima guerra mondiale appena £ 1,20 al mese per badare ai muli, i quali, avendo conosciuto il carattere e l’intelligenza oltre che la capacità affettiva di questi animali, spesso erroneamente additati come irascibili e ostinati, si rifiutarono di cambiare mansione per non lasciarli al proprio destino.
Cooper è molto attenta alla vita degli animali e denota una certa empatia nel porsi in ascolto e mettere in evidenza gli aspetti più intimi del rapporto animali/uomini in guerra. Un mondo che, come la psicologia, la veterinaria, l’etologia, la zoologia hanno permesso negli anni di farci conoscere, si contraddistingue per le peculiarità comportamentali e caratteriali degli animali stessi, la loro sensibilità e la loro capacità di provare affetto e reagire alla sofferenza e al dolore, proprio, dei propri simili e dell’uomo.
Il libro si concentra principalmente sulla storia e le vicende riguardanti le armate britanniche, ma nel fare questo prende in esame l’ampia e variegata presenza degli animali che dalla notte dei tempi hanno partecipato alle esperienze belliche dell’uomo.
I cavalli sono forse gli animali più noti nell’immaginario collettivo per la propria sensibilità e timidezza, oltre che per la loro delicatezza, a dispetto del fisico imponente. La loro presenza nelle guerre degli uomini risale al 2000-1000 a.C., quando presumibilmente nacque la cavalleria. Da allora e, almeno, fino alla Prima guerra mondiale, la presenza dei cavalli negli eserciti fu costante e venne nel tempo adattata agli strumenti tecnologici via via messi a punto dalla scienza bellica, sia che si trattasse di attaccare ai cavalli appositi carretti per muovere pezzi di artiglieria, sia che si trattasse di insegnare loro a mantenere la posizione sotto il fuoco e il rumore degli esplosivi.
Il progresso tecnico-scientifico se, da un lato, ha rafforzato gli eserciti, dotandoli di armi sempre più sofisticate e distruttive, dall’altro, ha contribuito ad incrementare la carneficina di questi animali, come la guerra di Crimea prima e quella Franco-prussiana dopo hanno dimostrato. Furono proprio queste esperienze a sancire l’avvio dell’attività della Royal Society for the Prevention of Cruelty to Animals (RSPCA), che richiese con una lettera ufficiale ai contendenti in campo di prevedere nei propri eserciti la presenza di un corpo di ufficiali-macellai con il compito di porre fine alle sofferenze degli animali feriti e di rimuoverli dal campo di battaglia.
Alla fine del XIX secolo cominciava, dunque, ad affermarsi una maggiore attenzione per la sofferenza animale. Non meraviglia, quindi, se nel 1902 i sentimenti del pubblico britannico furono oltraggiati a tal punto dall’apprendere che il ricordo più frequente dei reduci della guerra Anglo-boera fosse il lamento disperato dei cavalli feriti e la loro sofferenza nell’essere stati costretti ad abbandonarli al loro atroce destino, da rendere necessaria una inchiesta parlamentare che avrebbe portato l’anno successivo alla istituzione dell’Army Veterinary Corps.

La carneficina di cui furono protagonisti fu tale che nel 1905 a Port Elizabeth in Sud Africa venne eretto un memoriale ai cavalli caduti, un monumento per lungo tempo unico nel suo genere. Durante la guerra Anglo-boera, infatti, morirono 362.073 cavalli dei 520.000 arruolati. I sopravvissuti furono riportati in patria per l’assenza di corpi veterinari in campo, importando una serie di malattie che richiesero anni per essere debellate.
La Prima guerra mondiale vide in campo oltre 12.000.000 di cavalli e fu di fatto l’ultima guerra di cavalleria. Su tutti i fronti, ma in particolare sul Fronte occidentale e in una certa misura in Palestina, l’impegno dei Corpi veterinari britannici fu imponente e la RSPCA fu molto attiva nel raccogliere fonti, stimati in circa 250.000 sterline, destinati all’allestimento di ospedali veterinari da campo, all’acquisto di ambulanze, medicinali, foraggio, oltre che a garantire la convalescenza degli animali, per lo più cavalli e muli feriti.
Sensibili alle condizioni atmosferiche estreme e agli esplosivi, le reazioni dei cavalli potevano risultare molto pericolose sia per loro stessi che per i soldati, ma questo non impedì che tra soldato e cavallo si sviluppasse un legame molto forte e reciproco. Era frequente vedere soldati sfidare il pericolo per stare vicini al propri cavalli morenti, o cavalli impazziti di disperazione alla perdita del proprio cavaliere (p.34-36). Eppure il trattamento di questi animali non fu sempre compassionevole. Ne è dato un esempio, come sottolinea Cooper, dalle misure di protezione dai gas.
Le prime misure applicate per proteggere i cavalli dalle esalazione dei gas erano piuttosto rudimentali e molto dolorose. Esse erano costituite da tamponi, che venivano inseriti nelle narici dei cavalli e fermati a vivo con degli spilli conficcati nelle froge. Successivamente, quando ci si rese conto che tale pratica oltre che feroce era anche inutile, poiché richiedeva un tempo di applicazione lungo, si decise di utilizzare dei sacchetti come quelli utilizzati per il cibo con risultati altrettanto deludenti: i cavalli diventavano irrequieti, poiché cercavano il cibo e non trovandolo finivano con il togliersi il sacco di protezione. La cura per l’esposizione alle esalazioni, se possibile, fu addirittura peggiore. I cavalli esposti, infatti, venivano trattati con una dose giornaliera di arsenico, da somministrarsi in piccole quantità e per un periodo prolungato. Per questioni logistiche la tavoletta del veleno veniva inserita nel sacchetto del cibo con il risultato che spesso questa rimanesse sul fondo, innescando il rischio concreto di uccidere gli animali in un secondo momento, quando insieme al cibo finivano con l’ingerire una quantità letale di arsenico.
Altrettanto apprezzati furono i muli. Nel corso della Grande Guerra si dimostrarono stoici nelle situazioni più estreme, sotto il fuoco della battaglia di Gallipoli come al freddo gelido delle notti balcaniche; per la loro natura ibrida, inoltre, erano resistenti alle malattie, tanto che durante la Seconda guerra mondiale le truppe britanniche li arruolarono rimpiazzando totalmente i cavalli (pp. 96-109). Gli asini non furono da meno. Utilizzati principalmente dalle truppe francesi e italiane per il trasporto, essi vennero impiegati dagli alleati nella campagna dell’Africa orientale tra il 1916-17, dove morirono a migliaia in Palestina, attaccati dalle mosche tze-tze: dei 34.000 capi arruolati, alla fine delle operazioni ne sarebbero sopravvissuti solo 1.042 (pp. 154-163)
Non ebbero una sorte migliore le truppe cammellate impiegate dal generale Allenby per cacciare i Turchi dal deserto del Sinai. I soldati occidentali erano impreparati a gestire i cammelli, animali delicati, tutt’altro che veloci, ipersensibili al freddo e con una grande paura dell’acqua. In più, gli esemplari maschi, in particolare durante la stagione degli amori, potevano diventare ingestibili al punto da arrivare ad aggredire i conduttori. Anche in questo caso si registrarono numerose perdite in particolare tra il 1917-18, quando Allenby decise di marciare alla volta di Gerusalemme e Amman, passando per le colline della Giudea: i cammelli non sopravvissero alle fredde temperature notturne (pp.84-95).
Cooper non tralascia, poi, di analizzare le due presenze strategiche per eccellenza, i cani (pp. 54-71) e i piccioni viaggiatori (pp. 72-83). Fedeli e coscienziosi nello svolgimento del proprio lavoro, durante la Prima guerra mondiale si dimostrarono indispensabili nonostante il dispiegamento dei nuovi mezzi di comunicazione. Né di ricordare gli animali (cavalli, cani, gatti, mucche, pecore, maiali), che “servirono” nel fronte interno, annunciando con un certo anticipo l’imminenza degli attacchi aerei. La loro presenza pose alle autorità la delicata questione del recupero e dei soccorsi dopo i bombardamenti, affidati ufficialmente alla RSPCA (pp.120-133).
Alcune di queste creature ebbero gli onori di medaglie e riconoscimenti ufficiali per le azioni compiute sul campo a fianco dei soldati o tra i civili. La maggioranza di loro, però, non ebbe diritto neppure alla memoria.

Il libro di Jilly Cooper, grazie anche alla ricchezza del fondo fotografico messo a disposizione dall’IWM, ha contribuito non solo a recuperarne la memoria, ma anche ad attivare una campagna di raccolta fondi, che ha permesso nel 2004, a vent’anni dalla pubblicazione di Animals in War, l’inaugurazione a Park Lane (Londra) del memoriale dedicato agli animali, che servirono in tutte le guerre.
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