Sorpresa a scaffale

abstract: This post shares the recent discovery in the appendix of Primo Levi’s book, The Periodic Table, of the interview he gave in 1986 to Philip Roth. The topics covered in the interview are many and all fascinating: sexuality, a sense of belonging and diversity, both of which are connected to Levi’s Jewish identity and his being Italian, as well as to the fact that he is a chemist who writes books without being part of the literary establishment. Yet it is the reflection on work and education that is particularly striking. Roth guesses, by asking Levi about it, that for the latter, work was a vehicle of resistance and liberation; while technical-scientific training and the habit of observation were the tools for survival in the lager itself. Published in part in October 1986 in “The New York Times Book Review,” the interview in its entirety was published in Roth’s essay collection, Shop Talk, and posthumously in Why Write.

I libri restituiscono sempre qualcosa, tante volte ci sorprendono. Ed è proprio quello che è accaduto sfogliando un’edizione neppure tanto datata de Il sistema periodico di Primo Levi alla ricerca di qualche spunto da condividere in occasione del Giorno della memoria. L’appendice all’edizione del 2005 propone al lettore un’intervista di Philip Roth a Primo Levi. Si tratta di un’estratto di una ben più ampia intervista raccolta nel 1986, quando uno dei maggiori scrittori americani contemporanei intervistò Primo Levi per il “The New York Times Book Review”, ripreso qualche settimana dopo da “La Stampa” per essere proposto al pubblico italiano. L’interesse intorno alla figura di Levi non stupisce, la sua opera tradotta in inglese ebbe un notevole riscontro, contribuendo a trasformare lo scrittore resistente antifascista nello scrittore che più di ogni altro ha saputo raccontare la Shoah.

Philip Roth intervista Primo Levi

L’incontro tra i due scrittori e la storia dell’intervista sono documentati nel saggio di Marco Belpoliti, Philip Roth e le tre interviste a Primo Levi. Dalla lettura scopriamo che Roth, successivamente agli incontri avvenuti di persona nella primavera e nel settembre del 1986, rispettivamente a Londra e a Torino, inviò a Levi 10 pagine di domande, a cui Levi dedicò 8 pagine di risposte. L’intervista fu, dunque, resa in forma scritta e da questo corpus di domande e risposte è stata tratta una prima edizione pubblicata nell’ottobre 1986 sul “The New York Times Book Review” e successivamente, il 26 e 27 novembre 1986, su “La Stampa”. Queste prime versioni dell’intervista non combaciano, rispondendo a scelte editoriali indirizzate al rispettivo pubblico di riferimento. Non vi è tuttavia infedeltà rispetto al contenuto che, in entrambe le versioni, privilegia parti della corposa intervista, apparsa nella sua forma completa molto più tardi, dapprima, nella raccolta di saggi di Roth, Shop Talk (2001), tradotta in italiano per Einaudi nel 2004 con il titolo Chiacchere di Bottega, e successivamente nel 2017, dopo la morte di Roth, quando una terza edizione è stata pubblicata nella raccolta Why Write, tradotta nel 2018 sempre per Einaudi con il titolo Perché scrivere. I temi trattati nell’intervista sono diversi e tutti affascinanti, la sessualità, il senso di appartenenza e la diversità, entrambi connessi sia all’identità ebraica di Levi e al suo essere italiano, sia al fatto di essere un chimico che scrive libri senza far parte dell’establishment letterario. Eppure è la riflessione sul lavoro e sulla formazione che colpisce particolarmente l’attenzione.

Lavoro e formazione in Primo Levi

L’intervista, come poc’anzi detto, è la prosecuzione ideale dei due incontri tra Roth e Levi. L’incontro di Torino è davvero interessante. L’ammirazione reciproca tra i due autori è indiscutibile. Roth è ammirato ed incuriosito dalla natura ibrida di Levi, chimico e scrittore, anzi artista-chimico, come lo definirà, al punto da voler visitare la fabbrica di vernici dove Levi aveva lavorato come direttore per trent’anni. Questi, da parte sua, accoglie con entusiasmo la richiesta poiché molto legato al proprio lavoro tecnico, tanto da non averlo lasciato neppure dopo essere diventato uno scrittore famoso. Ed è qui che emergono due aspetti che Roth intuisce e di cui chiede conto a Levi: il lavoro come veicolo di resistenza e liberazione; la formazione tecnico-scientifica e l’abitudine ad osservare quali strumenti per la sopravvivenza stessa al lager.

A proposito del lavoro, Roth chiede:

La tua effettiva mania di lavorare ha un’origine più profonda. Il lavoro sembra un tema ossessivo per te, persino nel tuo libro sulla detenzione ad Auschwitz […]

E Levi in risposta:

[…] sono ben consapevole che dopo il Lager il lavoro, anzi, i miei due lavori (la chimica e lo scrivere) hanno avuto, e tuttora hanno un’importanza fondamentale nella mia vita. Sono convinto che l’uomo normale è biologicamente costruito per un’attività diretta a un fine, e che l’ozio, o il lavoro senza scopo (come l’Arbeit di Auschwitz) provoca sofferenza e atrofia. Nel mio caso, e in quello del mio alter ego Faussone, il lavoro si identifica con il «problem solving». Il risolvere problemi. Ma ad Auschwitz ho notato spesso un fenomeno curioso: il bisogno del «lavoro ben fatto» è talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i tedeschi, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale. 

E sull’abitudine ad osservare, Levi conferma:

[…] quello che tu dici, e cioè che per me il pensare, l’osservare, è stato un fattore di sopravvivenza, è vero, anche se a mio parere ha prevalso il cieco caso. Ricordo di aver vissuto il mio anno di Auschwitz in una condizione di spirito eccezionalmente viva. Non so se questo dipenda dalla mia formazione professionale, o da una mia inaspettata vitalità, o da un istinto salutare: di fatto non ho mai smesso di registrare il mondo e gli uomini intorno a me, tanto da serbarne ancora oggi un’immagine incredibilmente dettagliata. Avevo un desiderio intenso di capire, ero costantemente invaso da una mia curiosità che ad alcuni è parsa addirittura cinica, quella del naturalista che si trova trasportato in un ambiente mostruoso ma nuovo, mostruosamente nuovo.

(*) Le citazioni qui proposte sono state riprese dalla prima versione italiana dell’intervista su “La Stampa”, così come è stata pubblicata in appendice all’edizione del 2005 de “Il sistema periodico”.

Sicurezza e Responsabilità

Siamo nel 1954, si è da poco conclusa la guerra di Corea. Nel clima di paura, sospetto e odio della Guerra Fredda le grandi potenze, che a causa dei loro interessi strategici impedivano l’effettivo funzionamento delle Nazioni Unite, cercano di mantenere simultaneamente la pace e la loro supremazia militare, e gli scienziati con le proprie ricerche contribuiscono alla proliferazione dei programmi nucleari.  

La scienziata britannica Kathleen Lonsdale pubblica una sua riflessione su sicurezza e responsabilità civile degli scienziati.

Security and Responsibility

Si tratta di un testo di straordinaria attualità in cui l’autrice svolge un’analisi puntuale del lavoro scientifico al servizio del militarismo.

Formati e pagati per incrementare la capacità distruttiva dei paesi committenti, gli scienziati si trinceravano dietro il falso alibi della sicurezza collettiva, sostenendo che non era loro prerogativa decidere circa l’utilizzo del proprio lavoro

Per Lonsdale si trattava di una posizione alquanto opportunistica, perché

Nel fornire alle nazioni quel genere di armi che, in numeri facilmente raggiungibili, possono essere usate, come sappiamo, per spazzare via la civiltà, gli scienziati stanno, in effetti, mettendo il veleno nelle mani di bambini irresponsabili.

Il potere della conoscenza

Lo scienziato, pur essendo un singolo individuo, aveva più potere della maggioranza degli individui, un potere derivante dalle sue conoscenze e per questo Lonsdale chiedeva alla comunità scientifica di assumersi la responsabilità per lo stato di insicurezza globale, svelando le conseguenze dell’utilizzo militare delle scoperte scientifiche.

Responsabilità individuale e responsabilità civile

Si trattava di illustrare le gravi conseguenze che la produzione nucleare portava con sé. Conseguenze dannosissime per la salute umana, animale e ambientale dovute all’impossibilità di smaltire le scorie e alla ricaduta di materiali radioattivi al suolo dopo i test in atmosfera. 

Si trattava, inoltre, di far sapere ai cittadini che la politica nucleare, con riferimento in particolare al caso della Gran Bretagna, era una politica predatoria, poiché veniva alimentata con lo sfruttamento delle miniere di uranio del Congo e le devastanti conseguenze dell’estrattivismo militare avrebbero portato nel tempo a condizioni di vita tali da determinare una esponenziale crescita delle migrazioni dall’Africa.

Dalla sicurezza militare alla sicurezza sociale

Assumendosi la responsabilità civile di rendere note le proprie scoperte e le loro conseguenze, gli scienziati avrebbero potuto mettere le proprie intelligenze al servizio del benessere collettivo, un benessere condiviso non ottenuto a spese della perdita altrui. Perché ciò avvenisse bisognava spostare l’attenzione dalla sicurezza militare alla sicurezza sociale per tutti i viventi, promuovendo nella comunità un desiderio di servizio. 

Da qui la proposta di Lonsdale per un vasto progetto di servizio civile volontario nazionale e internazionale, alimentato da scambi organizzati, adeguatamente supportati sul piano finanziario e gestionale dai governi: l’idea era quella di favorire gli scambi fra lavoratori di ogni ordine e grado e, soprattutto, fra i giovani.  

Nei panni degli altri

Era sua opinione, infatti, che i giovani, pur essendo idealisti ed entusiasti, difficilmente riuscissero ad immaginare le condizioni sotto cui le altre persone erano costrette a vivere. Ma se avessero potuto lavorare insieme ai loro coetanei di ogni parte del mondo, con reciproco rispetto, sarebbero stati il motore di una migliore comprensione internazionale e di una maggiore capacità di cooperazione. La coscienza civile sviluppata sul campo avrebbe favorito una rivoluzione sociale diffusa, tale da rendere inaccettabili la persistenza della povertà, della cattiva salute, dell’ignoranza e della degradazione, cause di tanta sofferenza in molte parti del mondo.

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(*) Questo testo fa parte del contributo presentato al convegno “Ripensare l’ecopacifismo femminista” (Roma, 17-18 maggio 2019)

I migliori anni della nostra vita / The Best Years of Our Lives

Nel 1946 William Wyler diresse uno dei più famosi e premiati film della storia del cinema americano, I migliori anni della nostra vita.

I migliori anni della nostra vita

Il film racconta di tre reduci – il sergente Al Stephenson, il capitano di aviazione Fred Derry e il marinaio Homer Parrish – e del loro difficile reinserimento nella vita civile dopo la guerra.  

Si tratta del primo film ispirato alla Seconda guerra mondiale che, anziché celebrare gli aspetti eroici della “guerra giusta” contro il nazismo, dà voce al grave danno fisico e psicologico che quell’esperienza lasciò nei combattenti. 

Raccontare il trauma

I reduci della Seconda guerra, infatti,  tacquero a lungo il proprio disagio e si sentirono legittimati a raccontare la propria esperienza solo negli anni Settanta, quando divennero note le sindromi post-traumatiche che colpirono i veterani del Vietnam. Nel film di Wyler gli aspetti traumatici della guerra non furono taciuti, anzi per interpretare il personaggio di Homer Parish venne scelto l’attore Harold Russell, che era stato davvero un militare e durante la guerra aveva perso entrambe le mani.

🇬🇧 In 1946 William Wyler directed one of the most famous and award-winning films in the history of American cinema, The Best Years of Our Lives.

The Best Years of Our Lives

The film tells the story of three veterans – sergeant Al Stephenson, captain Fred Derry and officer Homer Parrish – and their difficult reintegration into civilian life.

This is the first film inspired by the Second World War that instead of celebrating the heroic aspects of the “just war” against Nazism gives voice to the serious physical and psychological damage that that experience left in the fighters. 

Telling the Trauma

The WWII veterans, in fact, kept their discomfort quiet for a long time and felt entitled to tell their experience only in the Seventies, when the post-traumatic syndromes affecting Vietnam veterans became known. In Wyler’s film the traumatic aspects of the war were not silenced, on the contrary, to play the character of Homer Parish was chosen the actor Harold Russell, who had really been a soldier and during the war had lost both hands.

(*) quando non diversamente indicato, le traduzioni dall’inglese all’italiano e viceversa sono a cura della redazione // unless otherwise indicated, translations from English into Italian and vice versa are the responsibility of the editorial staff.

L’importanza di schierarsi / The Importance of Taking Sides

Nell’aprile 1963 iniziava la Campagna di Birmingham.

Birmingham (Alabama) era all’epoca la città più segregazionista d’America e il Movimento per i Diritti Civili degli Afro-Americani decise che fosse il luogo giusto per un’iniziativa nonviolenta tesa ad accelerare il processo che avrebbe posto fine della segregazione razziale.

L’obiettivo era la desegregazione dei commercianti del centro di Birmingham, ma la campagna, pur utilizzando esclusivamente metodi nonviolenti di confronto, dovette scontrarsi con la brutale repressione delle autorità locali, guidate dal commissario Eugene “Bull” Connor.

Il sostegno dei leader della comunità ebraica e delle chiese cristiane fu piuttosto tiepido. Le autorità religiose anzi criticarono duramente M.L.King, invitandolo a fermare la protesta.

Rinchiuso nel carcere di Birmingham, Martin Luther King scrisse una lunga lettera provando a spiegare le ragioni della protesta e la necessità di continuarla.

🇬🇧 In April 1963 the Birmingham Campaign began. 

Birmingham (Alabama) was at that time the most segregationist city in America and the African-American Civil Rights Movement decided it was the right place for a non-violent initiative aimed at accelerating the process that would end racial segregation.

The goal was the desegregation of the merchants of downtown Birmingham, but the campaign, while using only nonviolent methods of confrontation, had to clash with the brutal repression of the local authorities, led by Commissioner Eugene “Bull” Connor.

The support of the Jewish community leaders and Christian churches was rather lukewarm. Religious authorities even harshly criticized M.L.King and urged him to stop the protest. 

Imprisoned in the Birmingham jail, Martin Luther King wrote a long letter trying to explain the reasons for the protest and the need to continue it.

(*) quando non diversamente indicato, le traduzioni dall’inglese all’italiano e viceversa sono a cura della redazione // unless otherwise indicated, translations from English into Italian and vice versa are the responsibility of the editorial staff.

Rivoluzione Aperta / Open Revolution

Lo sciopero alla rovescia

Nel 1956, Danilo Dolci, già noto per le sue azioni nonviolente a favore dei più piccoli e poveri, il 2 febbraio guida la protesta di centinaia disoccupati, i quali con un singolare “sciopero alla rovescia” si recano a “lavoro” per rimuovere il fango da una strada vicina a Partinico (Sicilia). 

L’iniziativa era stata ampiamente pubblicizzata, doveva essere una festa per vedere affermato un principio costituzionale (art. 4), il diritto al lavoro. In effetti non vi fu violenza, ma per aver affermato che “non garantire il lavoro secondo lo spirito della costituzione è da assassini”, Danilo Dolci e alcuni sindacalisti furono arrestati. Ne seguì un processo e la condanna a 50 giorni di carcere. 

Aldo Capitini in concomitanza con la condanna diede alle stampe questo breve volume, un’arringa per Danilo Dolci, sintetizzandone i principi ispiratori in un decalogo, che è al tempo stesso un invito all’azione e un manifesto per una rivoluzione nuova, aperta e nonviolenta.

Decalogo per l’azione

1. Lavorare per una società che sia veramente di tutti; 2. Cominciare più affettuosamente e più attentamente dagli “ultimi”; 3. Portare le cose più alte a contatto dei più umili; 4. Partecipare per comprendere; 5. Superare continuamente i propri possessi dando aiuti; 6. Creare strumenti di lavoro e di civiltà per tutti; 7. Dare amorevolezza a tutte le persone, non considerandole chiuse nei loro errori; 8. Usare nelle azioni e nelle lotte il metodo rivoluzionario non violento; 9. Nei casi estremi e nei momenti decisivi offrire il proprio sacrificio (per esempio il digiuno), prendendo su di sé la sofferenza; 10. Promuovere riunioni e assemblee per il dialogo su tutti i problemi.

A reverse strike

🇬🇧 In 1956, Danilo Dolci, already known for his nonviolent actions in favor of the smallest and poorest, on February 2 leads the protest of hundreds of unemployed, who with a “reverse strike” go to “work” to remove the mud from a street near Partinico (Sicily)

The initiative had been widely publicized, it was supposed to be a celebration to see affirmed a constitutional principle (art. 4), the right to work. In fact there was no violence, but for saying that “not guaranteeing work in the spirit of the constitution is murderous” Danilo Dolci and some trade unionists were arrested. A trial followed and he was sentenced to 50 days in prison. 

Aldo Capitini, coinciding with the verdict, wrote this short volume, an argument for Danilo Dolci, summarizing the inspiring principles in a decalogue, which is both an invitation to action and a manifesto for a new revolution, open and nonviolent.

Ten rules for action

1. Working for a society that truly belongs to everyone; 2. Start more affectionately and more carefully from the “last”; 3. Bringing the highest things into contact with the humblest; 4. Participate to understand; 5. Continuously overcoming one’s possessions by giving help; 6. Create tools of work and civilization for all; 7. Give loving kindness to all people, not considering them closed in their mistakes; 8. Use the non-violent revolutionary method in actions and struggles; 9. In extreme cases and at decisive moments, offer one’s own sacrifice (e.g. fasting), taking upon oneself suffering; 10. Promote meetings and assemblies for dialogue on all issues.

(*) quando non diversamente indicato, le traduzioni dall’inglese all’italiano e viceversa sono a cura della redazione // unless otherwise indicated, translations from English into Italian and vice versa are the responsibility of the editorial staff.

La guerra è finita!

Bollettino della vittoria

La guerra finiva, cento anni fa.

All’importante appuntamento l’Italia arrivò con qualche giorno di anticipo, il 4 novembre 1918, quando il Bollettino della Vittoria annunciò la fine delle ostilità con l’Austria.

La festa dell’Unità nazionale e delle Forze armate

In questa data ogni anno si ricordano in Italia i caduti e si celebrano gli eroismi militari. Quella del 4 novembre è, infatti, la festa dell’Unità nazionale e delle Forze armate: gli orrori e le atrocità di guerra lasciano il posto alle parate, alle fanfare e alle acrobazie aeree delle frecce tricolore.

Il silenzio della pace

La data ufficiale della fine della guerra è, tuttavia, l’11 novembre e coincide con la resa della Germania agli Alleati, firmata nella cittadina francese di Compiégne. Nell’undicesimo giorno dell’undicesimo mese di cento anni fa il fuoco cessò su tutti i fronti, per far posto al silenzio della pace …

Sono una creatura, 1916

L’eroismo è un esorcismo

Ciascun paese decide cosa celebrare in questa occasione e puntare sul sacrificio e l’eroismo dei combattenti non è un atto di mero riconoscimento, quanto piuttosto un esorcismo: come a dire che l’orrore dei corpi dilaniati nelle trincee non è stato vano. Eppure, “The war to end all wars”, per usare le parole di Woodrow Wilson, si concluse con un armistizio spietato per gli sconfitti ed una quantità di traumi di portata globale, i cui effetti sono rintracciabili ancora oggi. 

Immagine di copertina: © IWM Poppies: Wave at IWM North, Manchester