articoli

Sorpresa a scaffale

abstract: This post shares the recent discovery in the appendix of Primo Levi’s book, The Periodic Table, of the interview he gave in 1986 to Philip Roth. The topics covered in the interview are many and all fascinating: sexuality, a sense of belonging and diversity, both of which are connected to Levi’s Jewish identity and his being Italian, as well as to the fact that he is a chemist who writes books without being part of the literary establishment. Yet it is the reflection on work and education that is particularly striking. Roth guesses, by asking Levi about it, that for the latter, work was a vehicle of resistance and liberation; while technical-scientific training and the habit of observation were the tools for survival in the lager itself. Published in part in October 1986 in “The New York Times Book Review,” the interview in its entirety was published in Roth’s essay collection, Shop Talk, and posthumously in Why Write.

I libri restituiscono sempre qualcosa, tante volte ci sorprendono. Ed è proprio quello che è accaduto sfogliando un’edizione neppure tanto datata de Il sistema periodico di Primo Levi alla ricerca di qualche spunto da condividere in occasione del Giorno della memoria. L’appendice all’edizione del 2005 propone al lettore un’intervista di Philip Roth a Primo Levi. Si tratta di un’estratto di una ben più ampia intervista raccolta nel 1986, quando uno dei maggiori scrittori americani contemporanei intervistò Primo Levi per il “The New York Times Book Review”, ripreso qualche settimana dopo da “La Stampa” per essere proposto al pubblico italiano. L’interesse intorno alla figura di Levi non stupisce, la sua opera tradotta in inglese ebbe un notevole riscontro, contribuendo a trasformare lo scrittore resistente antifascista nello scrittore che più di ogni altro ha saputo raccontare la Shoah.

Philip Roth intervista Primo Levi

L’incontro tra i due scrittori e la storia dell’intervista sono documentati nel saggio di Marco Belpoliti, Philip Roth e le tre interviste a Primo Levi. Dalla lettura scopriamo che Roth, successivamente agli incontri avvenuti di persona nella primavera e nel settembre del 1986, rispettivamente a Londra e a Torino, inviò a Levi 10 pagine di domande, a cui Levi dedicò 8 pagine di risposte. L’intervista fu, dunque, resa in forma scritta e da questo corpus di domande e risposte è stata tratta una prima edizione pubblicata nell’ottobre 1986 sul “The New York Times Book Review” e successivamente, il 26 e 27 novembre 1986, su “La Stampa”. Queste prime versioni dell’intervista non combaciano, rispondendo a scelte editoriali indirizzate al rispettivo pubblico di riferimento. Non vi è tuttavia infedeltà rispetto al contenuto che, in entrambe le versioni, privilegia parti della corposa intervista, apparsa nella sua forma completa molto più tardi, dapprima, nella raccolta di saggi di Roth, Shop Talk (2001), tradotta in italiano per Einaudi nel 2004 con il titolo Chiacchere di Bottega, e successivamente nel 2017, dopo la morte di Roth, quando una terza edizione è stata pubblicata nella raccolta Why Write, tradotta nel 2018 sempre per Einaudi con il titolo Perché scrivere. I temi trattati nell’intervista sono diversi e tutti affascinanti, la sessualità, il senso di appartenenza e la diversità, entrambi connessi sia all’identità ebraica di Levi e al suo essere italiano, sia al fatto di essere un chimico che scrive libri senza far parte dell’establishment letterario. Eppure è la riflessione sul lavoro e sulla formazione che colpisce particolarmente l’attenzione.

Lavoro e formazione in Primo Levi

L’intervista, come poc’anzi detto, è la prosecuzione ideale dei due incontri tra Roth e Levi. L’incontro di Torino è davvero interessante. L’ammirazione reciproca tra i due autori è indiscutibile. Roth è ammirato ed incuriosito dalla natura ibrida di Levi, chimico e scrittore, anzi artista-chimico, come lo definirà, al punto da voler visitare la fabbrica di vernici dove Levi aveva lavorato come direttore per trent’anni. Questi, da parte sua, accoglie con entusiasmo la richiesta poiché molto legato al proprio lavoro tecnico, tanto da non averlo lasciato neppure dopo essere diventato uno scrittore famoso. Ed è qui che emergono due aspetti che Roth intuisce e di cui chiede conto a Levi: il lavoro come veicolo di resistenza e liberazione; la formazione tecnico-scientifica e l’abitudine ad osservare quali strumenti per la sopravvivenza stessa al lager.

A proposito del lavoro, Roth chiede:

La tua effettiva mania di lavorare ha un’origine più profonda. Il lavoro sembra un tema ossessivo per te, persino nel tuo libro sulla detenzione ad Auschwitz […]

E Levi in risposta:

[…] sono ben consapevole che dopo il Lager il lavoro, anzi, i miei due lavori (la chimica e lo scrivere) hanno avuto, e tuttora hanno un’importanza fondamentale nella mia vita. Sono convinto che l’uomo normale è biologicamente costruito per un’attività diretta a un fine, e che l’ozio, o il lavoro senza scopo (come l’Arbeit di Auschwitz) provoca sofferenza e atrofia. Nel mio caso, e in quello del mio alter ego Faussone, il lavoro si identifica con il «problem solving». Il risolvere problemi. Ma ad Auschwitz ho notato spesso un fenomeno curioso: il bisogno del «lavoro ben fatto» è talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i tedeschi, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale. 

E sull’abitudine ad osservare, Levi conferma:

[…] quello che tu dici, e cioè che per me il pensare, l’osservare, è stato un fattore di sopravvivenza, è vero, anche se a mio parere ha prevalso il cieco caso. Ricordo di aver vissuto il mio anno di Auschwitz in una condizione di spirito eccezionalmente viva. Non so se questo dipenda dalla mia formazione professionale, o da una mia inaspettata vitalità, o da un istinto salutare: di fatto non ho mai smesso di registrare il mondo e gli uomini intorno a me, tanto da serbarne ancora oggi un’immagine incredibilmente dettagliata. Avevo un desiderio intenso di capire, ero costantemente invaso da una mia curiosità che ad alcuni è parsa addirittura cinica, quella del naturalista che si trova trasportato in un ambiente mostruoso ma nuovo, mostruosamente nuovo.

(*) Le citazioni qui proposte sono state riprese dalla prima versione italiana dell’intervista su “La Stampa”, così come è stata pubblicata in appendice all’edizione del 2005 de “Il sistema periodico”.

Sicurezza e Responsabilità

Siamo nel 1954, si è da poco conclusa la guerra di Corea. Nel clima di paura, sospetto e odio della Guerra Fredda le grandi potenze, che a causa dei loro interessi strategici impedivano l’effettivo funzionamento delle Nazioni Unite, cercano di mantenere simultaneamente la pace e la loro supremazia militare, e gli scienziati con le proprie ricerche contribuiscono alla proliferazione dei programmi nucleari.  

La scienziata britannica Kathleen Lonsdale pubblica una sua riflessione su sicurezza e responsabilità civile degli scienziati.

Security and Responsibility

Si tratta di un testo di straordinaria attualità in cui l’autrice svolge un’analisi puntuale del lavoro scientifico al servizio del militarismo.

Formati e pagati per incrementare la capacità distruttiva dei paesi committenti, gli scienziati si trinceravano dietro il falso alibi della sicurezza collettiva, sostenendo che non era loro prerogativa decidere circa l’utilizzo del proprio lavoro

Per Lonsdale si trattava di una posizione alquanto opportunistica, perché

Nel fornire alle nazioni quel genere di armi che, in numeri facilmente raggiungibili, possono essere usate, come sappiamo, per spazzare via la civiltà, gli scienziati stanno, in effetti, mettendo il veleno nelle mani di bambini irresponsabili.

Il potere della conoscenza

Lo scienziato, pur essendo un singolo individuo, aveva più potere della maggioranza degli individui, un potere derivante dalle sue conoscenze e per questo Lonsdale chiedeva alla comunità scientifica di assumersi la responsabilità per lo stato di insicurezza globale, svelando le conseguenze dell’utilizzo militare delle scoperte scientifiche.

Responsabilità individuale e responsabilità civile

Si trattava di illustrare le gravi conseguenze che la produzione nucleare portava con sé. Conseguenze dannosissime per la salute umana, animale e ambientale dovute all’impossibilità di smaltire le scorie e alla ricaduta di materiali radioattivi al suolo dopo i test in atmosfera. 

Si trattava, inoltre, di far sapere ai cittadini che la politica nucleare, con riferimento in particolare al caso della Gran Bretagna, era una politica predatoria, poiché veniva alimentata con lo sfruttamento delle miniere di uranio del Congo e le devastanti conseguenze dell’estrattivismo militare avrebbero portato nel tempo a condizioni di vita tali da determinare una esponenziale crescita delle migrazioni dall’Africa.

Dalla sicurezza militare alla sicurezza sociale

Assumendosi la responsabilità civile di rendere note le proprie scoperte e le loro conseguenze, gli scienziati avrebbero potuto mettere le proprie intelligenze al servizio del benessere collettivo, un benessere condiviso non ottenuto a spese della perdita altrui. Perché ciò avvenisse bisognava spostare l’attenzione dalla sicurezza militare alla sicurezza sociale per tutti i viventi, promuovendo nella comunità un desiderio di servizio. 

Da qui la proposta di Lonsdale per un vasto progetto di servizio civile volontario nazionale e internazionale, alimentato da scambi organizzati, adeguatamente supportati sul piano finanziario e gestionale dai governi: l’idea era quella di favorire gli scambi fra lavoratori di ogni ordine e grado e, soprattutto, fra i giovani.  

Nei panni degli altri

Era sua opinione, infatti, che i giovani, pur essendo idealisti ed entusiasti, difficilmente riuscissero ad immaginare le condizioni sotto cui le altre persone erano costrette a vivere. Ma se avessero potuto lavorare insieme ai loro coetanei di ogni parte del mondo, con reciproco rispetto, sarebbero stati il motore di una migliore comprensione internazionale e di una maggiore capacità di cooperazione. La coscienza civile sviluppata sul campo avrebbe favorito una rivoluzione sociale diffusa, tale da rendere inaccettabili la persistenza della povertà, della cattiva salute, dell’ignoranza e della degradazione, cause di tanta sofferenza in molte parti del mondo.

foto-1-2721008763-1558348652915.jpg

(*) Questo testo fa parte del contributo presentato al convegno “Ripensare l’ecopacifismo femminista” (Roma, 17-18 maggio 2019)

I migliori anni della nostra vita / The Best Years of Our Lives

Nel 1946 William Wyler diresse uno dei più famosi e premiati film della storia del cinema americano, I migliori anni della nostra vita.

I migliori anni della nostra vita

Il film racconta di tre reduci – il sergente Al Stephenson, il capitano di aviazione Fred Derry e il marinaio Homer Parrish – e del loro difficile reinserimento nella vita civile dopo la guerra.  

Si tratta del primo film ispirato alla Seconda guerra mondiale che, anziché celebrare gli aspetti eroici della “guerra giusta” contro il nazismo, dà voce al grave danno fisico e psicologico che quell’esperienza lasciò nei combattenti. 

Raccontare il trauma

I reduci della Seconda guerra, infatti,  tacquero a lungo il proprio disagio e si sentirono legittimati a raccontare la propria esperienza solo negli anni Settanta, quando divennero note le sindromi post-traumatiche che colpirono i veterani del Vietnam. Nel film di Wyler gli aspetti traumatici della guerra non furono taciuti, anzi per interpretare il personaggio di Homer Parish venne scelto l’attore Harold Russell, che era stato davvero un militare e durante la guerra aveva perso entrambe le mani.

🇬🇧 In 1946 William Wyler directed one of the most famous and award-winning films in the history of American cinema, The Best Years of Our Lives.

The Best Years of Our Lives

The film tells the story of three veterans – sergeant Al Stephenson, captain Fred Derry and officer Homer Parrish – and their difficult reintegration into civilian life.

This is the first film inspired by the Second World War that instead of celebrating the heroic aspects of the “just war” against Nazism gives voice to the serious physical and psychological damage that that experience left in the fighters. 

Telling the Trauma

The WWII veterans, in fact, kept their discomfort quiet for a long time and felt entitled to tell their experience only in the Seventies, when the post-traumatic syndromes affecting Vietnam veterans became known. In Wyler’s film the traumatic aspects of the war were not silenced, on the contrary, to play the character of Homer Parish was chosen the actor Harold Russell, who had really been a soldier and during the war had lost both hands.

(*) quando non diversamente indicato, le traduzioni dall’inglese all’italiano e viceversa sono a cura della redazione // unless otherwise indicated, translations from English into Italian and vice versa are the responsibility of the editorial staff.

L’importanza di schierarsi / The Importance of Taking Sides

Nell’aprile 1963 iniziava la Campagna di Birmingham.

Birmingham (Alabama) era all’epoca la città più segregazionista d’America e il Movimento per i Diritti Civili degli Afro-Americani decise che fosse il luogo giusto per un’iniziativa nonviolenta tesa ad accelerare il processo che avrebbe posto fine della segregazione razziale.

L’obiettivo era la desegregazione dei commercianti del centro di Birmingham, ma la campagna, pur utilizzando esclusivamente metodi nonviolenti di confronto, dovette scontrarsi con la brutale repressione delle autorità locali, guidate dal commissario Eugene “Bull” Connor.

Il sostegno dei leader della comunità ebraica e delle chiese cristiane fu piuttosto tiepido. Le autorità religiose anzi criticarono duramente M.L.King, invitandolo a fermare la protesta.

Rinchiuso nel carcere di Birmingham, Martin Luther King scrisse una lunga lettera provando a spiegare le ragioni della protesta e la necessità di continuarla.

🇬🇧 In April 1963 the Birmingham Campaign began. 

Birmingham (Alabama) was at that time the most segregationist city in America and the African-American Civil Rights Movement decided it was the right place for a non-violent initiative aimed at accelerating the process that would end racial segregation.

The goal was the desegregation of the merchants of downtown Birmingham, but the campaign, while using only nonviolent methods of confrontation, had to clash with the brutal repression of the local authorities, led by Commissioner Eugene “Bull” Connor.

The support of the Jewish community leaders and Christian churches was rather lukewarm. Religious authorities even harshly criticized M.L.King and urged him to stop the protest. 

Imprisoned in the Birmingham jail, Martin Luther King wrote a long letter trying to explain the reasons for the protest and the need to continue it.

(*) quando non diversamente indicato, le traduzioni dall’inglese all’italiano e viceversa sono a cura della redazione // unless otherwise indicated, translations from English into Italian and vice versa are the responsibility of the editorial staff.

Rivoluzione Aperta / Open Revolution

Lo sciopero alla rovescia

Nel 1956, Danilo Dolci, già noto per le sue azioni nonviolente a favore dei più piccoli e poveri, il 2 febbraio guida la protesta di centinaia disoccupati, i quali con un singolare “sciopero alla rovescia” si recano a “lavoro” per rimuovere il fango da una strada vicina a Partinico (Sicilia). 

L’iniziativa era stata ampiamente pubblicizzata, doveva essere una festa per vedere affermato un principio costituzionale (art. 4), il diritto al lavoro. In effetti non vi fu violenza, ma per aver affermato che “non garantire il lavoro secondo lo spirito della costituzione è da assassini”, Danilo Dolci e alcuni sindacalisti furono arrestati. Ne seguì un processo e la condanna a 50 giorni di carcere. 

Aldo Capitini in concomitanza con la condanna diede alle stampe questo breve volume, un’arringa per Danilo Dolci, sintetizzandone i principi ispiratori in un decalogo, che è al tempo stesso un invito all’azione e un manifesto per una rivoluzione nuova, aperta e nonviolenta.

Decalogo per l’azione

1. Lavorare per una società che sia veramente di tutti; 2. Cominciare più affettuosamente e più attentamente dagli “ultimi”; 3. Portare le cose più alte a contatto dei più umili; 4. Partecipare per comprendere; 5. Superare continuamente i propri possessi dando aiuti; 6. Creare strumenti di lavoro e di civiltà per tutti; 7. Dare amorevolezza a tutte le persone, non considerandole chiuse nei loro errori; 8. Usare nelle azioni e nelle lotte il metodo rivoluzionario non violento; 9. Nei casi estremi e nei momenti decisivi offrire il proprio sacrificio (per esempio il digiuno), prendendo su di sé la sofferenza; 10. Promuovere riunioni e assemblee per il dialogo su tutti i problemi.

A reverse strike

🇬🇧 In 1956, Danilo Dolci, already known for his nonviolent actions in favor of the smallest and poorest, on February 2 leads the protest of hundreds of unemployed, who with a “reverse strike” go to “work” to remove the mud from a street near Partinico (Sicily)

The initiative had been widely publicized, it was supposed to be a celebration to see affirmed a constitutional principle (art. 4), the right to work. In fact there was no violence, but for saying that “not guaranteeing work in the spirit of the constitution is murderous” Danilo Dolci and some trade unionists were arrested. A trial followed and he was sentenced to 50 days in prison. 

Aldo Capitini, coinciding with the verdict, wrote this short volume, an argument for Danilo Dolci, summarizing the inspiring principles in a decalogue, which is both an invitation to action and a manifesto for a new revolution, open and nonviolent.

Ten rules for action

1. Working for a society that truly belongs to everyone; 2. Start more affectionately and more carefully from the “last”; 3. Bringing the highest things into contact with the humblest; 4. Participate to understand; 5. Continuously overcoming one’s possessions by giving help; 6. Create tools of work and civilization for all; 7. Give loving kindness to all people, not considering them closed in their mistakes; 8. Use the non-violent revolutionary method in actions and struggles; 9. In extreme cases and at decisive moments, offer one’s own sacrifice (e.g. fasting), taking upon oneself suffering; 10. Promote meetings and assemblies for dialogue on all issues.

(*) quando non diversamente indicato, le traduzioni dall’inglese all’italiano e viceversa sono a cura della redazione // unless otherwise indicated, translations from English into Italian and vice versa are the responsibility of the editorial staff.

La guerra è finita!

Bollettino della vittoria

La guerra finiva, cento anni fa.

All’importante appuntamento l’Italia arrivò con qualche giorno di anticipo, il 4 novembre 1918, quando il Bollettino della Vittoria annunciò la fine delle ostilità con l’Austria.

La festa dell’Unità nazionale e delle Forze armate

In questa data ogni anno si ricordano in Italia i caduti e si celebrano gli eroismi militari. Quella del 4 novembre è, infatti, la festa dell’Unità nazionale e delle Forze armate: gli orrori e le atrocità di guerra lasciano il posto alle parate, alle fanfare e alle acrobazie aeree delle frecce tricolore.

Il silenzio della pace

La data ufficiale della fine della guerra è, tuttavia, l’11 novembre e coincide con la resa della Germania agli Alleati, firmata nella cittadina francese di Compiégne. Nell’undicesimo giorno dell’undicesimo mese di cento anni fa il fuoco cessò su tutti i fronti, per far posto al silenzio della pace …

Sono una creatura, 1916

L’eroismo è un esorcismo

Ciascun paese decide cosa celebrare in questa occasione e puntare sul sacrificio e l’eroismo dei combattenti non è un atto di mero riconoscimento, quanto piuttosto un esorcismo: come a dire che l’orrore dei corpi dilaniati nelle trincee non è stato vano. Eppure, “The war to end all wars”, per usare le parole di Woodrow Wilson, si concluse con un armistizio spietato per gli sconfitti ed una quantità di traumi di portata globale, i cui effetti sono rintracciabili ancora oggi. 

Immagine di copertina: © IWM Poppies: Wave at IWM North, Manchester

Resistenza nonviolenta e guerre balcaniche

Questo post, nel quale raccontiamo la resistenza nonviolenta del Kosovo e con essa un esempio riuscito di islam nonviolento, conclude la serie dedicata ai non-eroi, realizzata in preparazione dell’uscita del secondo numero della collana ‘case studies’.

La Repubblica indipendente del Kosovo

Situato nell’area sud-orientale dell’Europa, il Kosovo si è autoproclamato Repubblica indipendente il 17 febbraio 2008. L’indipendenza non è stata riconosciuta dalla Serbia, sebbene la Repubblica kosovara sia stata riconosciuta dalla maggioranza dei paesi ONU e goda di autonomia di governo dal 2012, da quando il gruppo di controllo internazionale ha lasciato il suo territorio. La storia contemporanea della regione si inserisce in quella drammatica delle guerre che hanno segnato la ex-Jugoslavia nell’ultimo decennio del Novecento. La destabilizzazione cominciò alla fine degli anni Ottanta quando nelle repubbliche della federazione jugoslava – Bosnia Erzegovina, Croazia, Slovenia, Serbia e Montenegro – s’inasprirono le spinte per ottenere l’indipendenza, dando inizio ad una lunga guerra civile, accompagnata da diverse guerre secessioniste a base etnica.

Guerre civili e di secessione

Le guerre balcaniche precipitarono con il collasso della Bosnia e gli assedi di Sarajevo e Srebrenica del 1995, a cui seguirono gli accordi di Dayton. Gli accordi  riconobbero le aspettative nazionaliste delle ex-repubbliche federali, mortificando però le istanze di indipendenza della provincia autonoma del Kosovo, situata in territorio serbo ma a maggioranza musulmana albanese, che pure non era stata risparmiata dagli orrori della pulizia etnica e della guerra. 

La “serbizzazione” del Kosovo

Tra il 1990 e il 1991, il governo federale presieduto da Milosevic incentivò la colonizzazione serba del Kosovo, giustificandola con l’alto valore simbolico che la regione ricopriva per l’identità nazionale serba. La “serbizzazione” del Kosovo fu molto aspra: i serbi presero il controllo del governo di Pristina, avviarono operazioni di polizia sul territorio e procedettero all’apartheid culturale, cancellando i programmi scolastici in albanese per introdurre quelli in serbo, disponendo ingressi e orari differenziati per i bambini serbi e i bambini albanesi, sostituendo il personale sanitario e amministrativo di etnia albanese. Queste operazioni, in particolare l’apartheid culturale e i controlli di polizia avevano lo scopo di riequilibrare i rapporti demografici fra le parti in favore dei serbi, la cui presenza nell’area era da sempre minoritaria. Gli albanesi kosovari non ebbero molte opzioni di fronte alla situazione che si stava imponendo loro: chi ne ebbe la possibilità, emigrò; quanti rimasero tra il 1990 e il 1995 scelsero di ribellarsi ai soprusi del governo federale, adottando la resistenza nonviolenta come strumento di lotta. 

Ibrahim Rugova e la resistenza nonviolenta

Il movimento nonviolento fu coordinato in particolare dalla Lega democratica per il Kosovo (Ldk), un partito fondato da intellettuali e guidato dallo scrittore Ibrahim Rugova. Intellettuale musulmano di etnia albanese, il politico Rugova ha provato a disarticolare il binomio armi-potere, in un contesto dominato da criminali e signori della guerra, avviando una seria critica al nazionalismo. Convinto, infatti, che l’amore per il Kosovo non si misurasse con l’odio per i serbi, per smontare il nazionalismo serbo ha criticato anche quello albanese, in particolare quello armato del movimento di liberazione (Uçk). Su questo assunto ha preso corpo la resistenza disarmata kosovara, fondata su obiettivi precisi, quali l’autodeterminazione e la difesa della comunità albanese; e su metodi propri della disobbedienza civile, come il  boicottaggio delle leggi e delle istituzioni federali, la renitenza alla leva, la resistenza nonviolenta alle provocazioni, la divulgazione della lotta e la costituzione di uno Stato parallelo. 

Tornare al dialogo

Uno degli aspetti più dirompenti di questa iniziativa va rintracciato nell’ostinata volontà di tornare al dialogo. 

Il 1990 fu ribattezzato, non a caso, l’anno della riconciliazione, caratterizzato da un programma di incontri clandestini fra cittadini di diversa etnia e diversa religione, affinché ciascuno potesse raccontare i torti subiti dall’altro e riceverne le dovute scuse per ricucire i rapporti incrinati dal clima incandescente del momento. 

Il funerale alla violenza

Gli incontri di riconciliazione furono di preparazione ad un singolare funerale, svoltasi a Pristina il 10 luglio 1991: migliaia di persone accompagnarono il feretro della violenza, sepolto in nome dell’autonomia del Kosovo da ottenere senz’armi. Da quel momento si contarono diverse iniziative di resistenza nonviolenta, tali da mettere in difficoltà il governo federale.

Forme di disobbedienza civile

Accanto ai reiterati digiuni di Rugova contro gli atti di violenza, che contribuirono a dare visibilità internazionale alla situazione della regione, benché Milosevic continuasse a minimizzarla, si registrò una imponente ribellione al coprifuoco imposto ai cittadini di etnia albanese che, per le modalità con cui venne attuata, costrinse il governo a revocarlo. Quando scattava il coprifuoco, i cittadini di origine albanese tornavano nelle proprie case, mettevano una candela alla finestra e, ad orari concordati, cominciavano a produrre rumori con oggetti metallici, generalmente pentole. Questo esempio di creatività proprio dell’agire nonviolento rese nulla la misura restrittiva imposta dal governo, poiché la polizia non poteva impedire azioni svolte dai singoli all’interno delle proprie abitazioni. 

Lo Stato parallelo

La costituzione dello Stato parallelo favorì iniziative dal grande valore civile come l’organizzazione delle scuole e dei servizi sanitari paralleli, permettendo ai cittadini di etnia albanese di continuare ad esercitare i propri diritti all’istruzione e alla salute, nonostante le reiterate misure di segregazione imposte loro dal governo centrale.  

Gli accordi di Dayton e i bombardamenti Nato

La situazione interna precipitò dopo gli accordi di Dayton. La delusione per il mancato riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo spinse il fronte di resistenza albanese per la liberazione al confronto violento con i serbi e la guerra civile che ne seguì non risparmiò nessuno, neppure i kosovari albanesi della lega democratica. Una guerra cruenta conclusasi nel giugno del 1999, dopo la prolungata serie di bombardamenti Nato, quando i serbi si ritirano, il fronte di liberazione consegnò le armi e si insediò il gruppo di controllo internazionale.  

Gli eventi sembravano aver decretato la fine politica di Rugova e della resistenza nonviolenta, ma quando furono indette le elezioni politiche nel 2001 Rugova venne eletto presidente.

Ridefinire il concetto di mascolinità

I detrattori di Rugova ne hanno deriso l’iniziativa, tacciandola di ingenuità, mentre gli studi sulle guerre balcaniche dedicano davvero poco spazio alla resistenza nonviolenta kosovara, sebbene anche ad essa e al coraggio dimostrato da tanti cittadini inermi si debba la tenuta del fronte interno e la possibilità di ricomposizione sociale avviata alla fine del conflitto. Di certo, rimane escluso dalla riflessione il fatto che Rugova abbia portato nella virulenta politica balcanica la virtù della mitezza, dimostrandone l’efficacia attraverso la ridefinizione del concetto di mascolinità, piuttosto arcaico nelle culture fortemente patriarcali: “il vero uomo non è chi reagisce alla violenza altrui, bensì chi mantiene il controllo”. Si tratta di un rovesciamento culturale importante, non inedito per un leader musulmano.

(Non-Eroi, 8 – Conclusione)

“You can’t kill the Spirit”

“She is like a mountain/Old and Strong/She goes on and on and on” 

“She is like a mountain/Old and Strong/She goes on and on and on”. Questo il refrain di una delle più famose canzoni pacifiste femministe degli anni Ottanta: 

un tributo al lavoro delle donne per la pace e la giustizia, ad un mondo libero dal nucleare

Il contesto

Il 12 dicembre 1979 la NATO, senza chiedere l’approvazione dei parlamenti dei paesi coinvolti, decise di dislocare nelle basi europee i nuovi missili nucleari Cruise e Pershing. I paesi interessati erano cinque – Belgio, Germania occidentale, Gran Bretagna, Italia e Olanda -, la protesta montò in tutta l’Europa occidentale, negli Stati Uniti e in Australia. La portata della minaccia nucleare fu tale da risvegliare il movimento contro l’atomica, silente sin dai tempi della crisi missilistica cubana, introducendovi una variabile imprevista, tutt’altro che irrilevante: quel movimento, generalmente ispirato e rappresentato da uomini, venne monopolizzato dalle donne.

Furono loro, le donne, in primis le donne britanniche, ad utilizzare la propria specificità di genere per confrontarsi con il potere politico globale, il potere nucleare, dando vita ad un vasto movimento pacifista trans-europeo ed impulso ad una nuova era della protesta femminista. 

Il materno

Non era certo la prima volta che le donne si esprimevano con forza sul disarmo e l’anti-militarismo, ma l’aver focalizzato l’iniziativa sul materno, erigendolo a difesa della vita, dei propri figli e delle generazioni future, fece sì che alla protesta aderisse un gruppo eterogeneo ed inedito, composto da casalinghe conservatrici, attiviste pacifiste dai capelli bianchi, giovani femministe pronte ad invadere la base con azioni dimostrative. E diventasse fonte d’ispirazione per esperienze analoghe ovunque nel mondo, anche in Italia.

Da Cardiff a Greenham Common

Tutto cominciò con una marcia partita quando, dopo oltre un anno di valutazioni strategiche, la NATO rese noto che la base militare di Greenham Common nel Berkshire avrebbe ospitato 96 missili Cruise.

Era il 27 agosto 1981 e 36 donne, attiviste della “Women for Life on Earth”, partirono da Cardiff alla volta di Greenham, dove arrivarono 10 giorni dopo. Avendo chiesto senza successo un confronto televisivo con il governo sulla questione nucleare, decisero di accamparsi fuori dalla base.

Una lunga esperienza ecofemminista

Le promotrici della marcia non potevano immaginare che quell’iniziativa avrebbe dato l’avvio ad un’esperienza durata complessivamente 19 anni. Sebbene la presenza stabile delle donne in prossimità della base cominciò a ridursi  verso la fine degli anni Ottanta, quando con l’avvio del programma nucleare Trident fu chiaro che i missili presenti a Greenham  sarebbero stati trasferiti altrove – operazione che fu completata nel 1991-, le ultime attiviste lasciarono il campo solo nel 2000, quando fu loro riconosciuto il diritto ad erigere sul posto un memoriale.

La creatività nonviolenta delle donne

Dopo una prima fase di assestamento, nel febbraio 1982 le partecipanti all’occupazione decisero che il campo pacifista doveva essere esclusivamente femminile, affinché fosse garantita una completa adesione all’azione nonviolenta, in particolare nei momenti di confronto con la polizia e l’esercito. Le cariche di polizia e gli arresti furono numerosi. Ma gli accampamenti si ricostituirono dopo ogni sgombero. 

Non mancarono, inoltre, imponenti eventi dimostrativi, come l’Abbraccio alla Base del 12 dicembre 1982, quando 30.000 donne rispondendo all’appello lanciato dalle attiviste raggiunsero Greenham per abbracciare la base, e la catena umana lunga 23 Km che nell’aprile 1983 collegò Greehnam Common allo stabilimento atomico di Aldermaston, a cui parteciparono 70.000 persone provenienti da tutto il mondo.

L’eredità del Women’s Peace Camp di Greenham

Il Women’s Peace Camp di Greenham fu un luogo in cui il rifiuto popolare al nucleare prese corpo intorno ad una riflessione teorica ecologista e pacifista, trasmessa attraverso i tour di conferenze, tenute dalle attiviste presso altri campi analoghi nel mondo, le canzoni, raccolte nel volume Greenham Women Are Everywhere, un documentario diretto da Beeban Kidron e Amanda Richardson, Carry Greenham Home, e persino un racconto di Nicky Edwards, Mud

https://vimeo.com/ondemand/carrygreenhamhome

(Non-Eroi, 7 – Continua)

Uno straordinario travestimento di massa

Consideriamo incompleta una storia che si è costituita sulle tracce non deperibili.

Così scriveva Carla Lonzi nel Manifesto di Rivolta Femminile (1970) a proposito della semi-cancellazione delle donne dalle memorie pubbliche.

In Italia la memoria pubblica della Seconda guerra mondiale ha a lungo ignorato uno straordinario episodio di azione nonviolenta, unico nel suo genere in Europa, di cui furono protagoniste le donne: il travestimento di massa dei soldati sbandati dopo l’8 settembre 1943.

Un facile bersaglio

Il proclama Badoglio, annunciando, da un lato, l’armistizio e la cessazione delle ostilità verso le forze anglo-americane e, dall’altro, di rispondere agli attacchi di qualsiasi altra provenienza, mise a rischio la vita di migliaia di militari italiani, che nel tentativo di salvarsi cominciarono a disertare.  Stigmatizzati come vili e traditori, nel giro di poche ore diventarono un bersaglio tanto per gli ex-alleati nazisti, che con le loro truppe già sul territorio potevano facilmente farli prigionieri, quanto per le  autorità italiane poiché la diserzione in caso di cattura apriva loro le porte della corte marziale. 

Da militari a civili

Di fronte a quelle vite in pericolo, le donne agirono in ordine sparso e con spirito nonviolento per trasformarli da militari in civili. Non si posero domande su chi fossero, per quali idee avessero combattuto e per quali ragioni scappavano, semplicemente li nascosero, trovarono loro abiti adeguati, distrussero le uniformi e li accompagnarono ai treni perché potessero raggiungere le loro famiglie, mettendo così a segno una grandiosa operazione di salvataggio realizzata attraverso un travestimento di massa. 

Se una tale azione fosse stata condotta armi alla mano, svaligiando i negozi per procurare gli abiti civili, sarebbe entrata di diritto nella costruzione della memoria postbellica della guerra e della Resistenza, ma essendo stata realizzata senz’armi ne è rimasta esclusa per molto tempo.

La manutenzione della vita

Sebbene le stesse protagoniste ci abbiamo restituito una memoria ridimensionata degli eventi, sostenendo di aver fatto quello che ritenevano giusto e che ‘istintivamente’ sentivano di dover fare, l’8 settembre 1943 le donne italiane operarono una “straordinaria manutenzione della vita”, un’operazione di maternage di massa, condotta da una soggettività femminile forte e tenace in soccorso ad una mascolinità fragile e pericolante.

(Non-Eroi, 6 – Continua)

I ragazzi del Club Churchill

La conquista nazista della Danimarca

Il 9 aprile 1940 con un’operazione di un solo giorno la Germania nazista occupò la Danimarca, un paese neutrale su cui Hitler aveva indirizzato le proprie mire allo scopo di conseguire, fra l’altro, una maggiore arianizzazione della razza tedesca. La fraternizzazione dei soldati della Wehrmacht con la popolazione femminile locale avrebbe dovuto contribuire alla nascita di una nuova generazione di tedeschi-vichinghi: obiettivo patetico, se non fosse stato diretta conseguenza delle politiche razziali naziste.

Agire ‘come se’…

Il re Cristiano X e il governo danese per proteggere i cittadini decisero di negoziare con i tedeschi e nel farlo misero in pratica la tecnica del come se, agendo cioè ‘come se’ la Germania fosse un partner normale e non un usurpatore e la Danimarca potesse negoziarvi da pari a pari benché fosse sotto occupazione. Ne derivò la firma di un memorandum in base al quale i tedeschi lasciavano al governo in carica il controllo in materia di legislazione scolastica, politica economica e finanziaria, fisco e distribuzione delle risorse, nonché la gestione dei procedimenti giudiziari; mentre le autorità danesi si impegnavano a contenere l’opposizione dei civili contro i tedeschi. Un accordo ragionevole che avrebbe permesso di ridurre al minimo i danni alla popolazione, evitando rappresaglie e spargimento di sangue, tanto da ottenere un ampio consenso popolare. Ciononostante, i danesi non tennero un atteggiamento passivo nei confronti dell’occupante.

Il Club Churchill

La resistenza nonviolenta contro i nazisti assunse ben presto una forma organizzata e il Club Churchill ne fu una delle prime espressioni.

Il Club si costituì nella cittadina di Aalborg nell’autunno del 1941 ad opera di otto ragazzi di età compresa tra i 14 e i 18 anni i quali, sotto la guida del quindicenne Knud Pedersen, la cui storia è stata ripresa di recente nel volume The Boys who Challenged Hitler (2015), misero a segno 25 azioni di sabotaggio ai danni della Wehrmacht, rubando armi e distruggendo veicoli militari. La loro iniziativa fu interrotta nel maggio 1942 quando la polizia li arrestò con l’accusa di aver distrutto beni di proprietà tedesca. Mandati a processo, gli otto ragazzi furono condannati al pagamento di quasi due milioni di corone danesi e a tre anni di prigione. La condanna scatenò la protesta della popolazione, che si concluse con la scarcerazione dei giovani.

Resistenza nonviolenta 

La ribellione popolare, sebbene tesa a rovesciare la sentenza di un tribunale danese, si inserisce fra le numerose azioni intraprese dai cittadini con l’intento di isolare culturalmente i nazisti e fiaccarne il morale. Nello stesso periodo in cui il Club Churchill organizzava rischiose operazioni di sabotaggio, si consolidava un’altrettanto coraggiosa quanto anonima forma di resistenza popolare detta del voltare le spalle, a cui chiunque poteva partecipare compiendo gesti semplici come fingere di non comprendere il tedesco se interpellato; uscire dai negozi all’ingresso di un soldato della Wehrmacht; camminare in gruppo a testa bassa verso una colonna nazista fino a costringerla a deviare il percorso. A queste azioni di resistenza popolare parteciparono in molti, compreso il re Cristiano X, ciascuno assumendo su di sé un rischio calcolato ma non per questo più lieve. 

(*) L’immagine dei ragazzi del Club Churchill è tratta da Wikipedia

(Non-Eroi, 5 – Continua)