Cercando Luisa. Storie di bambini in guerra 1938-1945 (Opac Sbn) di Maria Bacchi è stato pubblicato nel 2000. Rileggerlo a diciotto anni di distanza, nell’anno in cui una bambina ebrea sopravvissuta al lager, Liliana Segre, è stata nominata senatrice a vita della Repubblica italiana, offre una prospettiva nuova su una cupa pagina di storia nazionale altrimenti poco frequentata dal dibattito pubblico, se non in occasione di celebrazioni ufficiali.

Era un mercoledì, il 5 aprile 1944:

quasi nessuno si accorge di quanto accade verso mezzogiorno tra via Gilberto Govi e la stazione ferroviaria di Mantova, quasi nessuno sente il tonfo pesante della portiera del grosso furgone cupo sul quale gli ebrei, sequestrati nella casa di riposo israelitica di via Govi, trasformata da alcuni mesi in campo di internamento, vengono portati alla stazione di Mantova: dove saliranno sul carro bestiame che già ha caricato a Fossoli più di cinquecento persone destinate ad Auschwitz […] la più anziana è la signora Vittoria Foà, di 83 anni, la più giovane è una bambina di 14 anni, Luisa Levi (p.8).

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Maria Bacchi restituisce alle generazioni future la breve vita di Luisa Levi, una bambina vissuta a Mantova negli anni Trenta, deportata ad Auschwitz a quattordici anni: non fece ritorno. Nel tracciare la biografia di Luisa, l’autrice ripercorre e interroga i ricordi di quanti furono bambini con lei ed è attraverso questo sguardo infantile, nonostante le incrostazioni della memoria, che riesce a ricostruire anche la storia e la geografia della città di Mantova, in costante mutamento tra il 1938 e il 1945.

Luisa Levi era cresciuta in una famiglia agiata. Le foto e i ricordi dei famigliari sopravvissuti ne descrivono l’immagine di un’infanzia solare, vissuta in una bella casa, poi occupata dai nazisti verso la fine del 1943. Fu un’amica amata e una compagna di scuola ben voluta, ragione per cui il suo ricordo è rimasto vivo nelle memorie delle bambine e dei bambini che la conobbero. Di Luisa, inoltre, si sa che amava la musica, suonava la fisarmonica e il piano, e che l’entrata in vigore delle leggi razziali le impedì l’iscrizione tanto desiderata al conservatorio.

Il 5 settembre 1938 venne emanato il decreto che, in ottemperanza ai provvedimenti fascisti in “difesa della razza”, vietava ai bambini e ai ragazzi ebrei di frequentare le scuole di ogni ordine e grado e sospendeva dall’insegnamento i docenti ebrei. A Mantova venne organizzata la scuola per bimbi ebrei in via Vescovado, inaugurata nel 1938 e chiusa nel 1943. Dall’autunno di quell’anno, infatti, la soluzione del “problema ebraico” sarebbe stata avviata anche in Italia, gli ebrei non avrebbero più avuto bisogno delle loro case e i loro figli di andare a scuola. Nel frattempo, Luisa si ritrovò in una pluriclasse con un nuovo maestro, Renato Rovighi, un ex dirigente scolastico declassato in quanto ebreo.

Scoppia la guerra. Le memorie dei bambini e delle bambine, chiamati a ricordare quel periodo a cinquant’anni di distanza, sono frammentate, risentono delle sedimentazioni del giudizio adulto che ciascuno ha sviluppato nel corso del tempo, maturando valutazioni politiche e storiche sull’accaduto. Pur con i distinguo dell’esperienza e del ricordo dei singoli e delle singole,

la cartografia della memoria di un’infanzia in guerra è fatta di rifugi e cantine, di scuole che diventano campi di addestramento, di aule che si trasformano in recinti di esclusione, di centri di arruolamento insediati, forse non per caso, in quelli che prima erano luoghi di aggregazione che il regime aveva costruito per la gioventù. Ma quell’infanzia precettata e mobilitata contro il nemico esterno e contro un pervasivo quanto etereo nemico interno, ha continuato ad avere luoghi propri nei cortili e nelle parrocchie, nei giardini pubblici e anche nel reticolo delle strade buie della città dove, nonostante il coprifuoco, i più audaci non rinunciavano ad avventurarsi (p. 4).

Non è andata così per Luisa. La famiglia, nel tentativo di fuggire in Svizzera, si trasferì a Milano dove fu sequestrata da militi italiani della Guardia nazionale repubblicana, su segnalazione di concittadini collaborazionisti. Separata dal padre, Luisa insieme alla sorella maggiore e alla madre fu internata per alcuni mesi a Mantova prima della partenza per Auschwitz. Dei giorni nel campo di sterminio non si sa molto. I libri di memoria curati dagli archivi dei Centri per la memoria della Shoah e i documenti prodotti nei campi hanno permesso, tuttavia, a Maria Bacchi di azzardare una ricostruzione verosimile degli eventi: la madre e la sorella, una ragazza di qualche anno più grande ma molto delicata, morirono probabilmente subito, Luisa no. La lunga ricerca per ricostruire la storia di questa vita si intreccia, infatti, con la storia di un’altra bambina, Arianna Szoreny. Di tre anni più giovane, Arianna incontrò Luisa a Bergen Belsen, dove Luisa arrivò in seguito ai trasferimenti forzati, le marce della morte, operati dai nazisti nell’inverno del 1945. Nella testimonianza che Arianna ha rilasciato a Lidia Beccaria Rolfi, anche lei sopravvissuta al lager, l’immagine di Luisa non è più quella di una ragazzina preadolescente, felice e piena di vita, bensì quella di una bambina inerme e malata, troppo debole per vedere la liberazione.

Il lavoro di ricostruzione e di analisi svolto da Maria Bacchi intorno alla storia di vita di una persona assente, Luisa, è nato, come scrive l’autrice medesima da

un fermento di residui: quelli dell’infanzia delle protagoniste e dei protagonisti […]; i residui della mia memoria di bambina del dopoguerra e […] quelli del mestiere che a lungo ho esercitato: ‘esperta d’infanzia’, maestra elementare nella stessa scuola del goitese di cui fu direttore, prima delle leggi razziali, il maestro di Luisa, Renato Rovighi (p. 277).

Ne scaturisce un libro intenso che accompagnando il lettore nei meandri della memorie e delle strade di Mantova lo mette in sintonia con l’assenza, quella di Luisa e dei tanti, troppi bambini morti nei campi di sterminio senza lasciare traccia. La storia di vita di Luisa, una giovanissima ragazza deprivata della propria identità, dei propri desideri e del proprio corpo, interroga tutti gli altri, tutti i non ebrei, costringendoli a riflette sull’indifferenza e il consenso che hanno reso possibile la Shoah.