In guerra senz’armi. Storie di donne 1940-1945 (Opac Sbn) di Anna Bravo e Anna Maria Bruzzone usce nel 1995, a cinquant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, collocandosi nel solco degli studi sulla resistenza civile europea.

Le autrici non si limitano a considerare la generale modernizzazione del ruolo sociale delle donne, determinata dal loro ingresso in lavori considerati maschili e comunque ricoperti da uomini, ma avviano una riflessione sul topos del ‘cittadino in armi’ sostenuto con facili stereotipi, quali la naturalità delle azioni femminili e le forme di disordine sessuale associati alla partecipazione femminile, tutti profondamente radicati in una mentalità mediterranea come quella italiana, entro cui per Bravo e Bruzzone l’azione delle donne può esplicitarsi solo producendo una dilatazione del materno fino a farlo diventare maternage di massa.

Il maternage di massa, inteso come disponibilità femminile verso un destinatario preciso e debole, è un’ipotesi suggestiva in quanto permette di entrare nel merito del rapporto uomo/donna e di sovvertirlo. Con la guerra, il soggetto debole è l’uomo, mentre la donna ne garantisce la sopravvivenza assolvendo ad un ruolo che le testimonianze ci restituiscono come naturale (salvare la vita come dare la vita), ma che di fatto apre ad un cambiamento epocale caratterizzato da momenti di trasgressione che passano attraverso la resa pubblica di comportamenti privati.

La “piccola Resistenza” delle donne esplode senz’armi. Esse intercedono presso i tedeschi, portano assistenza ai partigiani, ricompongono i cadaveri, anche se di nemici, rallentano il lavoro in fabbrica e pertanto sabotano la produzione, assaltano i depositi viveri e linciano coloro che si dimostrano favorevoli alla RSI.

Le donne agiscono come se tutto fosse normale, anche se non lo è. In una situazione d’emergenza proteggere quello che si ha impone azioni del tutto eccezionali, facendo sì che il materno non venga più associato all’attesa, ormai propria dei prigionieri, e sprigionando una mobilità ed una visibilità fuori dal comune. È una maternità forte quella che si afferma l’8 settembre 1943, quando le donne si spesero per travestire i militari con abiti civili, e, non a caso, gli oggetti del mutamento erano uomini giovani, tutti potenzialmente figli, e il figlio, si sa, “non decide, è «mandato», costretto” (p. 212).

I segni di questa maternità forte vengono rintracciati nelle testimonianze delle donne di Torino dalle quali emergono alcuni nodi di indagine interessanti – il rapporto madre-figlia, la vita nel manicomio e la conseguente esclusione dal maternage, il rapporto con la violenza, agita e subita ma sempre taciuta, da cui la necessità, per le ricercatrici, di ricorrere alle carte penali –, fino ad esplorare il nesso che intercorre tra la guerra stessa e il processo di modernizzazione, da cui si sarebbe realizzata un’evoluzione dei rapporti di genere.

Quante fra il 1940 e il 1945 erano giovani donne esprimono il loro rammarico per essere cresciute troppo in fretta; le bambine ricordano la sofferenza per le differenze sociali, aggravate dalla guerra, in cui il corpo è offeso dalla mancanza di vestiti e cibo adeguati. Vi è poi la mutata percezione della morte e del dolore. Le pagine più belle e più dolorose sono infatti quelle sulla “guerra privata”, dove si affrontano i temi della prostituzione, degli infanticidi, degli aborti, insomma quelli di cui le donne non parlano, ma a farlo sono le carte dei tribunali. E, ancora, la vita nel manicomio che non permette alle internate di partecipare all’azione collettiva, sebbene anche per loro la guerra abbia lasciato il segno, offrendo con lo sfollamento l’opportunità di uscire dal quotidiano luogo di reclusione. La ricerca, infine, non tralascia le testimonianze di donne spietate, le quali hanno rifiutato la maternità, il ruolo tradizionale, decidendo di vivere per sé, e quelle di donne che sono andate a combattere, chiedendo di poter partecipare alle azioni armate.

La Liberazione determinò una seconda ondata di maternage tesa a mettere fine alla logica della guerra civile, cercando elementi utili per rompere l’identificazione dell’individuo con il suo schieramento politico. Questo avvenne perché la Resistenza, nella sua forma armata e in quella civile,

indica due tipi di condotta morale: una morale del sacrificio, in cui è, più o meno inconsapevolmente, sottinteso che la redenzione esige il sangue, e una morale del rischio, senza sacralità né violenza, in cui si affrontano pericoli calcolati per prendersi cura della vita e della dignità di altri esseri umani, ritenute più importanti dei programmi politici (p. 207).

Il materno ha scelto il rischio.